
Philipp Beutler, cosa si attende esattamente dal vertice di Sendai?
L’incontro si prospetta come un’ulteriore tappa determinante per l’appello che abbiamo fatto nostro alla DSC, ossia che ogni strategia di aiuto allo sviluppo debba includere la nozione di rischio di catastrofi. Solo a questa condizione i mezzi stanziati ad esempio dalla DSC in un Paese partner non corrono il pericolo di essere «annientati» da un giorno all’altro a causa di una catastrofe. Il vertice di Sendai rammenterà ai Governi l’esigenza di dare priorità alla prevenzione del rischio di catastrofi nelle rispettive agende. A tal proposito, il fatto che il vertice si tenga all’inizio del 2015 è particolarmente significativo: quest’anno sarà infatti decisivo per l’adozione dei nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS). La Conferenza sul clima di Parigi sarà un altro appuntamento saliente del 2015.
Il rischio di catastrofi naturali è, per l’appunto, spesso associato ai cambiamenti climatici. A giusto titolo?
È un dato di fatto che determinate popolazioni subiscano con maggiore frequenza eventi climatici estremi da quando sono in atto i cambiamenti climatici. Questi hanno provocato oltre l’80 per cento delle catastrofi naturali registrate negli ultimi trent’anni, con ripercussioni sugli aiuti umanitari forniti in reazione all’emergenza. Ciò detto, la nozione di rischio include anche terremoti, eruzioni vulcaniche, frane e smottamenti nonché i conflitti sociali o politici che ne possono derivare. Occorre quindi mettere le popolazioni in condizione di resistere o di far fronte meglio alle catastrofi. Gli Stati o le comunità che dispongono dei mezzi necessari per investire nella gestione dei rischi, sviluppando ad esempio strutture di protezione o forme di assicurazione, riducono la loro vulnerabilità. Bisogna quindi combattere la povertà in una prospettiva di riduzione dei rischi. Numerosi progetti della DSC vanno in questo senso. Se guardiamo un po’ indietro nel tempo, già nel 1976, la legge federale sulla cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umanitario internazionali invocava l’adozione di «misure di prevenzione».
Ma torniamo al vertice di Sendai. Dieci anni dopo l’approvazione di un primo «quadro d’azione», cosa può apportare concretamente in più una seconda versione?
Innanzitutto una strada da seguire e degli impegni più precisi per una gestione dei rischi coordinata tra i vari attori. Va poi detto che il primo quadro d’azione era stato portato avanti da un piccolo gruppo di Paesi, principalmente del Nord. Dieci anni più tardi, il tema della gestione dei rischi è ormai globale. Oltre a una serie di organizzazioni specializzate, un gran numero di Governi del mondo intero è direttamente coinvolto nelle discussioni preparatorie e nei negoziati.
Negoziati? Non tutti sono d’accordo di anticipare i rischi?
In linea di principio, sì. Le numerose consultazioni tematiche, organizzate a livello regionale e infine raggruppate a Ginevra nel 2013 per stilare un primo bilancio, hanno dato risultati quasi unanimi. Ora restano aperte diverse questioni inerenti, più precisamente, alle modalità di cooperazione tra Paesi del Nord e del Sud, ai ruoli e alle capacità dei vari attori coinvolti, nonché al finanziamento della gestione dei rischi. Queste riflessioni costituiscono la prova che il tema è ormai una priorità per tutti gli Stati.
Quale ruolo concreto ha svolto la Svizzera nella preparazione del vertice di Sendai?
La Svizzera ha occupato uno dei due seggi riservati al gruppo dei Paesi occidentali in seno al Comitato preparatorio ed ha quindi esercitato un’influenza diretta sull’elaborazione del nuovo «quadro d’azione» che sarà adottato in Giappone. Abbiamo approfittato di questo ruolo di «co-pilota» per assicurarci che i Paesi maggiormente esposti alle catastrofi naturali e alle conseguenze dei cambiamenti climatici possano far sentire la loro voce. In quest’ottica, l’Ufficio delle Nazioni Unite per la riduzione del rischio di disastri (UNISDR) con sede a Ginevra è stato uno dei nostri interlocutori privilegiati. Sul piano nazionale, la DSC è stata incaricata di organizzare consultazioni volte a definire una posizione «svizzera» comune tra diversi attori quali il DFAE, l’Ufficio federale dell’ambiente, l’Ufficio federale della protezione della popolazione e la SECO, senza scordare le ONG, il settore privato, le università o, ancora, la piattaforma nazionale «Pericoli naturali».